L’ITALIA nella Belt and Road Initiative della CINA autocratica.

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KEY TAKE AWAY.

• La democrazia in Italia e l’autocrazia cinese: le iniziative dei decisori politici italiani pro-Cina, a partire dal 2004 e sviluppatesi in un continuum storico cresciuto di anno in anno, culminato con l’adesione dell’Italia al progetto infrastrutturale e geopolitico cinese della  Belt and Road Initiative nel Marzo 2019, rischiano di porre a servizio della Cina e del suo regime autocratico il Sistema Paese Italia.

Il progetto infrastrutturale cinese della BRI è uno dei veicoli di una pervicace strategia cinese di Political Warfare volta a cristallizzare e consolidare la posizione autocratica e totalitaria del Presidente della Repubblica popolare cinese sia all’interno della Cina che nello scacchiere internazionale.

 Introduzione.

Ci si chiede come e perché l’Italia, ma sarebbe meglio precisare l’Italia con il suo Nord Italia, cuore produttivo del Paese, sia diventata il centro europeo del contagio dal virus SARS-CoV-2, proveniente dalla Cina.

La storia dell’uomo e delle strutture che nel corso del tempo si è dato per soddisfare il proprio bisogno di esprimere le sue esigenze di ‘essere sociale’, che si muove all’interno di un contesto organizzato, mostrano come un evento che colpisca e/o emerga in un singolo territorio in un determinato lasso temporale, ha sempre, senza eccezioni, collegamenti con vicende altre, che potrebbero all’apparenza non sembrare collegate.

Nella maggior parte dei casi questi collegamenti si evidenziano solo quando sono maturati e portati all’attenzione di tutti. Ed è così che diventano pagine di storia.

Attendere inerti che si avverino significa agire in balia di un approccio fatalistico a cui molti noi esseri umani talvolta ci votiamo. Come se la sofferenza fosse ineludibile. E’ certo vero che l’esperienza della sofferenza fa parte dell’esistenza degli esseri umani, ma è anche vero che sceglierla come atto di libero arbitrio dipende da ognuno di noi. Non è scelta obbligata. Dipende dalle azioni che intraprendiamo, che generano conseguenze. Questo vale per i singoli individui, come per un sistema Paese.

L’esperienza della pandemia che oggi stiamo tutti vivendo, potrebbe farci riflettere e farci comprendere come spesso si agisca senza valutare le conseguenze delle proprie azioni.  Quando questo comportamento è agito da chi è alla guida di un Paese, la questione diventa scottante. Perché se le scelte non sono avvedute, possono portare un Paese intero sull’orlo del baratro.

E’ in questo tipo di cornice che si pongono le analisi, e quelle geo – politiche non fanno eccezione a questa regola; servono a delineare il profilo degli interlocutori/Nazioni con cui un Paese si interfaccia, allo scopo di considerare possibili punti di contatto da coltivare verso una visione comune di rapporti ed alleanze, così come a valutare rischi, e quindi consentire di prevenire il dispiegarsi, nel breve o nel medio/lungo periodo, di scenari di insorgenza di una crisi, e/o di aggravamento di crisi preesistenti.

Lungi dall’accendere allarmismi, e ancor meno dal nutrire teorie ed ipotesi fantasiose, le analisi non dovrebbero cercare consenso o dissenso, perché analisi compiacenti verso un orientamento politico sono analisi cieche. Dovrebbero essere guidate da onestà intellettuale, perché non sono elaborate in funzione del potere di qualcuno, ma in funzione di interessi superiori, tra cui in primis la sicurezza del proprio Paese e dello Stato di Diritto, a prescindere da chi si trovi in un determinato momento storico a capo del Potere Esecutivo di un Paese.

Le analisi sono strumenti, in sé e per sé neutri, benché poi come per tutti gli elementi neutri possano essere utilizzate o a servizio di interessi superiori per il bene comune, o in modo distruttivo a servizio di interessi particolaristici e/o di ideologie. Il loro scopo è fornire non argomentazioni politiche, ma prospettive, che nascono dalla identificazione di dati, messi a sistema tra loro, valutati, per fornire indicazioni predittive, affinché i decisori politici e non solo, possano assumere scelte consapevoli, che siano compatibili con la tutela degli interessi strategici del proprio Paese, scelte orientate alla stabilità e alla sicurezza della loro popolazione, all’interno di un quadro legislativo non solo rispettoso delle basilari fonti normative primarie che regolano la vita della popolazione, in Italia in primis la Costituzione democratica, ma anche all’interno di un quadro valoriale adeguato e coerente.

Quando i decisori politici scelgono di non tenere adeguatamente in considerazione elementi inerenti la sicurezza nazionale della propria popolazione, nonostante le segnalazioni di gravi rischi alla stessa, scegliendo di puntare al contrario su supposti miglioramenti economici a scapito della sicurezza, o per insufficiente conoscenza o perché scelgono di circondarsi di persone non sufficientemente competenti e/o integre, quando non per entrambi i motivi, si assumono responsabilità politiche, non solo gravose, ma pericolose e gravi nei loro esiti, perché lo scenario che inevitabilmente si delinea è rendere il proprio Paese terreno di conquista per interferenze e condizionamenti di entità straniere, senza valutarne, né con scienza né con coscienza, il possibile impatto nel breve, medio e lungo termine.

C’è chi contesta alcune linee di analisi riferite al rischio alla sicurezza interna derivante dall’intrattenere rapporti commerciali con Paesi quanto meno ambigui nella gestione, spesso illegale, del proprio potere e della propria Nazione. La contestazione poggerebbe le sue fondamenta sul  fatto che un Paese dovrebbe saper tessere rapporti commerciali con tutti, nessuno escluso. Qualche precisazione sul punto.

Tessere rapporti commerciali e diplomatici significa comunicare. E ogni comunicazione è sempre anche condizionamento e influenzamento reciproco. Nelle dinamiche economiche e diplomatiche questo è un processo normale, oltre che noto. Il problema sorge quando la comunicazione, gli accordi economici e le relazioni diplomatiche scelgono la strada di ignorare od omettere, deliberatamente o per mancata diligenza, caratteristiche del proprio interlocutore con cui ci si trova a negoziare rapporti e potenziali accordi, rendendolo partner commerciale, non vedendo e/o omettendo non solo le sue peculiarità predatorie ma il fatto che agisce all’interno di un contesto valoriale e normativo profondamente, quando non radicalmente diverso dal nostro, spesso e volentieri percorrendo strade anche di illegalità e/o di deliberata soppressione di diritti fondamentali per il vivere civile.

Quando rapporti economici e diplomatici intercorrono o si stringono con Paesi il cui sistema valoriale e il relativo sistema normativo non è orientato democraticamente, o si colloca palesemente al di fuori della cornice delle norme da noi invece consolidate, la sicurezza del proprio Paese corre rischi gravissimi. Gli accordi che si presume o si vuol convincere siano solo economici e commerciali diventano economico-politici e strategici, e impattano sulla vita quotidiana dei cittadini, oltre che sugli equilibri globali.

Ciò che lascia sconcertati e solleva molte domande sulle scelte di netta apertura dell’Italia nei confronti in particolare della Cina è la consapevolezza che gli allarmi sulla possibile violazione della sicurezza nazionale sono stati dati, e sin dal 2013. Sono stati forniti, argomentati, ribaditi. Il fatto che siano stati inascoltati da diversi Governi, a partire quanto meno dal 2014, è motivo di ulteriore allarme.

In termini estremamente pratici significa che coloro che si dedicano alla sicurezza del nostro Paese non sono stati ascoltati da chi dovrebbe prendere decisioni per il bene del Paese. E’ chiaro che siamo di fronte ad un corto circuito che genera ambivalenze e che è elemento di altrettanta chiara vulnerabilità del Paese.

Questo è ciò che sta accadendo all’Italia, che si vede non solo colpita come epicentro in Europa di una pandemia, ma che, dagli indicatori raccolti, rischia di diventare terreno fertile per tentativi di sovversione degli equilibri geo-politici a livello europeo e globale, agiti da interferenze straniere con il beneplacito della classe politica ora al Governo.

Chi sta facendo leva sulla attuale vulnerabilità italiana sono alcuni Paesi che hanno costruito tra loro un asse strategico negli ultimi anni, utilizzando Paesi e continenti lontani da noi, poco visibili, non solo per perseguire propri interessi, ma anche per mettere a punto e rendere sofisticate determinate strategie di azione.

Uno di questi Paesi è la Cina.  Questo contributo si soffermerà in particolare sulla panoramica generale dell’iniziativa cinese infrastrutturale della Belt and Road Initiative, avviata dal Presidente Xi Jinping e sul posizionamento di compiacente amichevole cooperazione assunto dai decisori istituzionali italiani. Si tratteggeranno poi le caratteristiche di Political warfare cinese, nelle tre dimensioni in cui è declinata dalla dottrina militare cinese.

Nel successivo contributo saranno invece analizzati nel dettaglio gli elementi che contraddistinguono l’autocrazia del regime cinese del Presidente Xi Jinping correlati alla sua ideologia che ne costituisce le fondamenta.

La Belt and Road Initiative: il ruolo dell’Italia ed il suo approccio alla Cina di Xi Jinping.

 Nel 2015 la Cina annuncia l’avvio della “Belt and Road Initiative” (BRI), iniziativa presentata come un massiccio progetto per costruire infrastrutture di trasporto ed energia che colleghi Cina, Europa, Asia centrale, Medio Oriente, Africa e Asia del sud.

Pechino promuove la BRI come una politica economica con una duplice narrativa che impatta sull’opinione pubblica.

La suggestione, utile per abbassare il livello di guardia degli interlocutori Paesi target di Pechino, è data dal rilancio dell’antica via commerciale della Via della Seta. La asserita inoffensività dell’iniziativa è invece conferita dalla narrativa strategica di Pechino che, innestandola all’interno di un mondo globalizzato, la veicola come strumento per ‘promuovere la globalizzazione, l’interconnessione e il libero commercio attraverso investimenti su larga scala nelle infrastrutture’.

La “Belt and Road Initiative” (BRI) da un punto di vista economico è un’iniziativa di dimensioni colossali, prevede quasi 1.000 progetti che collegheranno circa 70 paesi, tra cui la Cina, in una via della seta ricostituita, con l’obiettivo di creare infrastrutture in un numero di Paesi tale da comprendere 4,5 miliardi di persone, tre quarti delle riserve energetiche e un terzo del prodotto interno lordo globale, su una superficie pari al 35% del globo. Si calcola che il fabbisogno finanziario per completare i progetti potrebbe ammontare a $ 1 trilione di dollari, alcuni dei quali provenienti dalla China Development Bank, dal Silk Road Fund cinese, dalla Asian Infrastructure Investment Bank sostenuta dalla Cina e dalla New Development Bank, una banca sviluppata in collaborazione tra Cina, Brasile, Russia, India e Sudafrica (i cosiddetti Stati BRICS).

Si tratta dell’iniziativa geo-economica e di politica estera più ambiziosa della Cina da decenni. L’obiettivo cinese è ricreare e potenziare due strade commerciali, a livello terrestre e marittimo, in grado di collegare Cina, Asia Centrale, Medio Oriente, Russia, Europa e Africa. I corridoi terrestri individuati dal governo cinese sono sei: il nuovo ponte terrestre euroasiatico; il corridoio Cina–Mongolia-Russia; il corridoio Cina–Asia Centrale–Asia Occidentale; il corridoio Cina–penisola indocinese; il corridoio Cina–Pakistan; il corridoio Bangladesh–Cina–India–Myanmar  Oltre a questi corridoi sono identificate due rotte marittime: una rotta che collega il Mar cinese meridionale e l’Oceano Indiano ai porti del Mar Mediterreaneo, e l’altra rotta che collega il Mar cinese meridionale con il Pacifico del Sud. A queste due vie marittime, secondo le informazioni disponibili, se ne potrebbe aggiungere una terza, nel momento in cui lo scioglimento dei ghiacci, dovessero favorire la cosiddetta “Polar Silk Road”.

Descritta dai Cinesi come una scelta di politica economica dalla suggestiva aura esotica che rinvia all’immaginario dalla denominazione innocua della ‘Via della Seta’, la Cina tenta di presentarsi nello scacchiere internazionale come player responsabile, esplicitamente unicamente interessato a rapporti commerciali, apparentemente distante dalle vicende politiche interne del Paese target.

 E’ invece fuor di dubbio che la BRI si presenti come progetto aggressivo, agito dalla Cina autocratica del Presidente Xi Jinping, e rifletta la sua crescente volontà di assumere per se stesso e per la Cina, con uno specifico portato ideologico, il ruolo di decisore istituzionale nella governance economica globale, rendendola un importante centro di commercio, investimenti e capitale finanziario, dentro e fuori la propria regione.

 La BRI è quindi il veicolo cinese per espandere, accanto ai propri interessi economici, gli interessi politici e di sicurezza cinesi e la propria influenza all’estero, insinuandosi scaltramente nel tessuto sociale, culturale, finanziario, economico del Paese target  ed in questo modo costruendo alleanze politiche internazionali. Questo estero ricomprende a pieno titolo anche l’Europa, un mercato importante per le merci trasportate e scambiate lungo la rotta della BRI.

Il crescente coinvolgimento della Cina nei principali progetti infrastrutturali nel continente europeo ha da tempo suscitato preoccupazioni sugli inevitabili collegamenti politici e sulle potenziali implicazioni per la sicurezza europea, anche in considerazione del fatto che il progetto BRI è stato oggetto di un attento esame per le sue caratteristiche di mancanza di trasparenza, di promozione della corruzione e per la strategia già adottata dalla Cina di assunzione del debito dello Stato target con conseguente violazione della sovranità statale.

Con particolare riferimento all’Italia, secondo le informazioni disponibili, gli indicatori rivelano non solo un continuum ma anche un consolidamento di scelte di collaborazione nei confronti della Cina da parte dei decisori politici sin dal 2014, fino ad arrivare all’odierno Esecutivo, e alle sue prese di posizione a favore di quelle che appaiono scelte di sempre maggior compiacente collaborazione con la Cina.

La cronologia dei dati storici può dare alcune indicazioni.

1. Nel maggio 2013, durante il Governo guidato dal Presidente del Consiglio Letta (Partito Democratico), dopo una collaborazione iniziata nel 2011, Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa che opera, per conto del Governo, ed è azienda partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e della Finanza) dà l’avvio a una nuova collaborazione strategica a lungo termine in tema di investimenti esteri, tra Italia e Cina. Con quello che viene definito un ‘salto di qualità nei rapporti economici tra i due paesi’ e con una interlocuzione con i rappresentanti di 4 Ministeri (Sviluppo Economico, Infrastrutture, Ambiente e Beni culturali) dell’appena insediato Governo Letta (28 aprile 2013 – 22 febbraio 2014), il Dipartimento per la Programmazione Economica della Presidenza del Consiglio, 9 associazioni di categoria (tra cui ABI, Piccola Industria di Confindustria, Confapi, Confitarma, Assoporti, Unione Interporti Riuniti) 15 aziende (Enel Greenpower, Anas, Rete Ferroviaria Italiana, Terna, ecc.) e diverse istituzioni e organizzazioni, come Banca d’Italia, Cassa Depositi e Prestiti, ENAC, Autorità Energia Elettrica e Gas, la China Development Bank (CDB), colosso finanziario cinese, incaricato dal governo di Pechino di coordinare gli investimenti cinesi in tutto il mondo, si impegna a stilare insieme a Invitalia un documento di pianificazione degli investimenti, una sorta di guida ufficiale per indicare alle imprese cinesi come e dove investire in Italia. 

Amministratore delegato all’epoca di Invitalia è Domenico Arcuri, che precisa “Quella con la China Development Bank è una collaborazione molto importante perché consente di ridurre i tempi di selezione e accompagnamento degli investitori cinesi in Italia’.

2. Nei primi mesi del 2014, a cavallo tra il Governo del Presidente del Consiglio Letta e il successivo Governo guidato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi (entrambi del Partito Democratico), la Cina proietta la sua presenza in Italia con rilevanti operazioni:

-il passaggio del 40% di Ansaldo Energia a Shanghai Electric per 400 milioni di euro;

-l’acquisizione del 35% di Cdp Reti – società che controlla il 30% sia della rete gas di Snam che di quella elettrica di Terna – da parte di State Grid of China, la più grande utility al mondo, per oltre 2 miliardi di euro;

-l’investimento di oltre 2 miliardi da parte della People’s Bank of China per rilevare una quota appena superiore al 2% tanti in Eni quanto in Enel; altre quote rilevanti, attorno al 2%, sono detenute in Fiat Chrysler, Prysmian e Telecom Italia, mentre grande interesse è rivolto al settore del lusso: il gruppo Shenzhen Marisfrolg Fashion ha rilevato il marchio Krizia, Shandong Heavy Industry Group è entrato in Ferretti Yatch, Peter Woo ha una quota di Ferragamo.

3. Nell’ottobre 2014 il Presidente del Consiglio Matteo Renzi (Partito Democratico) sottoscrive con Pechino venti accordi per un valore totale di 8 miliardi di euro, esplicitando la volontà di iniziare con la Cina un grande progetto di collaborazione e di partnership, ed esplicitando l’interesse cinese per le piccole e medie imprese italiane.

Tra le principali operazioni: a) l’asse fra Cassa Depositi e Prestiti e la China Development Bank (Cdb) da 3 miliardi di euro per investimenti congiunti in Italia e Cina; b) un Memorandum fra il Fondo Strategico Italiano (Fsi) e la China Investment Corp per investimenti congiunti del valore di 1 miliardo; c) un accordo fra Enel e Bank of China, d) un accordo fra AgustaWestland (gruppo Finmeccanica) e Beijing General Aviation, e) un accordo fra Intesa Sanpaolo e la banca import-export cinese, f) un accordo per la creazione di un ecoparco.

4. Nel 2017 il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni (Partito Democratico), partecipa al primo Forum sulla Belt and Road Initiative (nota come BRI) a Pechino, in rappresentanza dell’Italia: l’unico leader di un Paese del G7 a farlo, manifestando così un chiaro interesse Italiano nel ritagliarsi un posto all’interno di questa iniziativa.

5. Il 22 marzo 2019 il Governo italiano sottoscrive un Memorandum of Understanding (in breve MoU) con la Cina, accordo fortemente voluto sia dall’attuale Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che dal Partito del Movimento 5 Stelle guidato da Di Maio, nonostante la contrarietà della Lega guidata da Matteo Salvini e gli allarmi consistenti inviati dal Dipartimento Informazioni per la Sicurezza sin dal 2013[9] e più recentemente proprio nei primi mesi del 2019 ribaditi dai Servizi di Sicurezza italiani, oltre che dal Consiglio di Sicurezza statunitense.

Secondo le informazioni disponibili, oltre al MoU circa 30 altri accordi paralleli sono stati sottoscritti nel marzo 2019, 10 con società italiane ed altri 20 con Istituzioni ed Enti pubblici. Tra questi, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) avrebbe sottoscritto un accordo con la Banca di Cina.

6. Il 16 marzo 2020, in piena emergenza sanitaria SARS-CoV-2, Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio, nomina super-commissario Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia (vd. punto 1).

Se da un lato le posizioni di Domenico Arcuri nei confronti delle informazioni relative agli investimenti cinesi da parte del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza possono essere state in passato confortanti, è pur vero che il Commissario che sta co-gestendo insieme all’attuale Presidente del Consiglio la fase emergenziale della odierna pandemia che ha colpito il cuore produttivo del Paese, è anche colui che sottoscrisse nel 2013 la prima collaborazione strategica a lungo termine in tema di investimenti esteri, tra Italia e Cina, mediante Invitalia, che, si rammenti, è l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa che opera per conto del Governo, ed è  azienda partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e della Finanza.

È lecito domandarsi quindi quale sia l’attuale orientamento del super – commissario Arcuri nei confronti della Cina, cui egli stesso di fatto apri le porte, e se la sua gestione attuale in una fase tanto delicata anche da un punto di vista economico per il Paese stia considerando le necessità attuali e future del nostro Paese, recependo fattivamente gli allarmi fondati del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, o se si stia mantenendo nei confronti della Cina un atteggiamento amichevole e compiacente nei fatti.

Certamente solleva domande e perplessità la scelta caduta su Arcuri come super-commissario, nomina che si inserisce infatti all’interno di un continuum storico in cui la collaborazione dell’Italia con la Cina si è sempre più ampliata e drammaticamente consolidata.

In particolare i dati evidenziano che lo spazio temporale di consolidamento della partnership Italia-Cina si è sviluppato durante tutta la XVII legislatura (2013-2018) che ha visto susseguirsi più crisi di Governo, tutte risolte non con elezioni democratiche ma attraverso la costruzione di intese all’interno del Parlamento e che hanno portato al Governo Letta, quindi al Governo Renzi, infine al Governo Gentiloni. Il continuum sembra poi essere proseguito nella XVIII legislatura (ora in corso) fondata sull’accordo Lega-Movimento 5 Stelle a guida dell’attuale Presidente del Consiglio Conte, (legislatura durante la quale la Lega aveva esternato la sua contrarietà al MoU Italia – Cina); tale ultima legislatura ha già visto una crisi di governo, anch’essa risolta senza elezioni popolari, ma con la costruzione di una nuova intesa parlamentare che di fatto ha spostato il baricentro politico prima costituito da Lega-Movimento 5 Stelle all’attuale coalizione Movimento 5 Stelle – Partito Democratico mantenendo la guida dell’attuale Presidente del Consiglio Conte.

Si rammenti che tutta la XVII legislatura è stata a guida Partito Democratico, con le azioni sopra menzionate pro-Cina, e che l’attuale Movimento 5 Stelle ha e continua a caldeggiare le posizioni verso la Cina. Ad oggi non vi sono indicatori che rivelino prese di posizioni divergenti rispetto a  posizioni pro-Cina né da parte del Presidente del Consiglio Conte né da parte del Partito Democratico.

C’è quindi da chiedersi oggi se la scelta del super-commissario Arcuri si ponga, o non si ponga, all’interno del medesimo intreccio di rapporti e di coinvolgimento con la Cina iniziato nel 2014, e se sia, o non sia, il segno tangibile delle intenzioni dell’attuale Governo di mantenere il proprio interesse strategico volto ad Est, nonostante apparenti rassicurazioni.

Esistono altri elementi che non aiutano a delineare un quadro rassicurante rispetto alla sicurezza del nostro Paese, Paese che vede i suoi decisori politici sostanzialmente ripiegati sulle policy cinesi. In particolare:

– il 5 marzo 2020, in piena pandemia da SARS-CoV-2, nel ballottaggio segreto a Ginevra, si sono svolte le elezioni del Direttore Generale dell’agenzia della Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale, la World Intellectual Property Organization.

-La WIPO assiste 193 Stati nello sviluppo di una cornice giuridica internazionale relativa alla proprietà intellettuale, in grado di salvaguardare la tutela della proprietà intellettuale e di definire gli strumenti per la risoluzione delle dispute in materia di violazione della proprietà intellettuale.

-Le elezioni svoltesi hanno determinato la vittoria di Daren Tang, che inizierà il proprio mandato di sei anni l’1 Ottobre 2020, sostituendo l’attuale Direttore Generale Francis Gurry.

-Fonti informative rivelano come il Governo Italiano a guida del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte si sia presentato quantomeno diviso sulla scelta del candidato. In particolare l’attuale Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale Luigi Di Maio parrebbe aver sostenuto la candidatura della cinese Wang Binying.

-Le questioni inerenti la proprietà intellettuale a livello internazionale hanno un ruolo cruciale anche sull’economia italiana, che di fatto, attraverso le iniziative sino ad ora prese pro-Cina, sembra essersi posta in balia delle azioni, e reazioni, cinesi.

-La rilevanza dell’economia italiana ed in particolare della regione Lombarda per la Cina è acclarata da uno studio predisposto, significativamente, da Assolombarda unitamente alla Fondazione Cina-Italia nel 2019, volto all’analisi dell’impatto sull’economia Lombarda del piano Made in China 2025, un piano di Pechino orientato alla trasformazione dell’intero tessuto industriale della Cina, con l’obiettivo di favorire l’innovazione e la salita nelle catene del valore da parte delle imprese cinesi.

-Nello studio si evidenzia che la Lombardia ricopre un valore cruciale in ambito nazionale: rispetto al totale nazionale concentra il 17% della popolazione, il 22% del Pil, il 20% della forza lavoro e il 16% delle imprese. Dal punto di vista del posizionamento internazionale, la Lombardia esporta il 27% del totale italiano, mentre con riferimento all’ecosistema innovativo produce il 33% dei brevetti nazionali, proporzionalmente di più del peso dell’area in termini di Pil.

-Secondo l’analisi citata l’Italia, ed in particolare la Lombardia, uno dei cuori manifatturieri dell’Italia e dell’Europa presenterebbe evidenti vulnerabilità rispetto al piano ‘Made in China 2025’.

 

In sintesi lo studio conclude con il considerare che: ‘Al fine di non trovarsi impreparati di fronte all’aggressiva politica di upgrade cinese, per la Lombardia risulta chiave investire e potenziare ulteriormente la propria capacità innovativa, che in ultimo è fattore abilitante fondamentale a difendere e riaffermare la posizione attrattiva e competitiva del territorio’. in particolare rafforzando due elementi che più degli altri, secondo l’analisi risulterebbero deboli ‘si evidenziano in questa sede la spesa in ricerca e sviluppo tra i fattori abilitanti e il trasferimento tecnologico tra gli output dell’innovazione’. Ed ancora: ‘Alla luce di queste considerazioni, la competitività di Italia e Lombardia sui mercati internazionali risulta poggiare in modo chiaro su elevati qualità e contenuto innovativo del prodotto. Per fronteggiare l’upgrade cinese, è dunque necessaria non solo una strategia commerciale per aiutare le imprese a meglio posizionarsi sui mercati esteri, ma soprattutto una strategia di sviluppo economico per supportare le imprese nella loro capacità innovativa’

-Benché lo studio non lo espliciti, è comunque piuttosto intuitivo considerare che uno studio in partnership con una Fondazione cinese nel quale si evidenzia la cruciale importanza della Lombardia per la Cina e si consigliano investimenti in termini di strategia commerciale e di sviluppo economico, porti alla luce indicatori piuttosto inequivocabili sul fatto che la Cina abbia interesse per la Lombardia. Il fatto che ne abbia evidenziato i punti di debolezza su cui far leva, e fornisca risposte per un superamento di queste debolezze è verosimilmente un tentativo di orientare, a proprio vantaggio, lo sviluppo delle imprese lombarde.

-Infatti, premere sulla necessità di un incremento della capacità innovativa delle imprese italiane ed in particolare lombarde, significa incremento per le proprietà lombarde di proprietà intellettuale, sia industriale che tecnologica.

-Il vantaggio che ne deriva per la Cina è indirettamente collegato al fatto che la partnership con la Cina pone l’Italia nella condizione di condividere elementi sensibili del proprio patrimonio sia industriale che tecnologico con un attore predatorio: risulta quindi chiaro come queste sollecitazioni all’investimento in termini di strategia di sviluppo economico non siano disinteressate, ma portino a incrementare un patrimonio di elementi sensibili di cui la Cina, come partnership di aziende italiane, o come attore predatorio di proprietà intellettuale può avvantaggiarsi.

-Alla luce di tutto questo, e considerato che, tra i vari Paesi del Globo, la Cina è risultata essere la più aggressiva nel furto di proprietà intellettuale, sarebbe allarmante se la notizia di un orientamento italiano pro – Cina nel settore della proprietà intellettuale a livello internazionale fosse confermata, elemento che potrebbe essere verificato solo in via indiziaria, considerato che le elezioni del WIPO si sono svolte a scrutinio segreto. Sarebbe allarmante che all’interno del Governo italiano si trovino decisori politici favorevoli ad un orientamento volto a cedere sostanzialmente alla Cina, nota per i suoi furti di proprietà intellettuale, la guida di un’organizzazione internazionale che si suppone dovrebbe essere dedita alla protezione giuridica della proprietà intellettuale e che stabilisce di fatto gli standard per brevetti, marchi e copyright.

Certo è chiaro che  il tentativo cinese di garantirsi, per la durata di un mandato di 6 anni, la guida di questa organizzazione globale, le avrebbe consentito di usare anche questo strumento per riscrivere le regole internazionali in un campo tanto delicato che impatta chiaramente sulla economica globale, oltre che sulla finanza globale, e su cui evidentemente la Cina puntava per percorrere  strade ulteriori volte al raggiungere obiettivi geopolitici.

Conclusioni.

Gli indicatori sopra delineati portano a considerare che:

1.l’attuale gestione dell’Esecutivo italiano dell’emergenza pandemia non sembra aver segnato, al momento, un cambio di passo netto dell’Italia nei confronti della collaborazione con la Cina, e la nomina del super-commissario Arcuri alla co-gestione della fase emergenziale, sebbene non offra indicatori sufficientemente conclusivi, solleva domande sulla reale intenzione italiana di smarcarsi dalla partnership con la Cina e fattivamente fare proprie le considerazioni, gli allarmi e gli assessment delle agenzie di Sicurezza italiane e americane;

2.le posizioni al momento ambigue dell’Esecutivo circa il supporto dato alla Cina in organismi internazionali avrebbero necessità di essere chiarite e adeguatamente investigate, al fine di valutare la presenza di punti di vulnerabilità istituzionali del sistema Paese Italia, che potrebbero fungere da possibili ‘agganci’ per azioni predatorie offensive da parte della Cina;

3.su un piano di politica interna a breve/medio/ lungo termine, emerge come il sistematico ricorso in Italia, in caso di crisi di Governo, a larghe intese parlamentari anziché al voto popolare come modalità risolutiva delle crisi, rischi di favorire il consolidarsi di prospettive, punti di vista e decisioni politiche che guardano in modo unilaterale agli interessi strategici del Paese;

4.tale visione unilaterale può diventare elemento di vulnerabilità per il sistema Paese, che in tal modo, fisiologicamente, non riesce a garantire la necessaria pluralistica visione e azione che è invece elemento tipico, peculiare e prezioso di ogni assetto democratico, oltre che antidoto agli attacchi predatori di entità straniere.

 

POLITICAL WARFARE CINESE : le c.d. Three warfares.  

Al di là delle perplessità e degli interrogativi che solleva l’attuale comportamento quantomeno ambivalente dell’attuale Esecutivo in Italia nei confronti della Cina, insieme all’ incomprensibile sottovalutazione degli allarmi ripetuti durante gli scorsi anni da parte della Sicurezza nazionale ed aventi la Cina come focus, ciò che emerge dall’analisi delle fonti e delle informazioni è il complesso coordinato di manovre messe in atto dalla Cina e che ne fonda alcune linee strategiche.

Se certamente è cruciale fornire linee di analisi per ampliare lo spettro di conoscenza relativo alla strategia cinese, con particolare riferimento all’uso dalla stessa più volte invocato, di tecniche di soft power (di cui un esempio concreto è stato dato precedentemente, con riferimento allo studio Assolombarda-Fondazione Cina Italia), non ci si può astrarre da un elemento politicamente cruciale, ovvero il fatto, molto spesso passato sotto silenzio quando non ignorato, che la Cina è a tutti gli effetti un regime autocratico, quindi non democratico, che si pone con connotati ben specifici sia al proprio interno sia nell’ambito internazionale, e che mira ad imporsi come potere egemonico, agendo nei confronti dei propri interlocutori modalità tipicamente predatorie, attraverso appunto l’utilizzo di vari strumenti, tra cui quelli di soft power.

Ipotizzare che la finalità egemonica di un nuovo ordine internazionale, più volte dichiarata dalla stessa Cina, sarà una minaccia realmente percepibile solo in occasione di un conclamato, quanto al momento improbabile, conflitto militare, o ridurre il contrasto tra Cina e Stati Uniti al tema delle relazioni commerciali e a quello dal primato tecnologico globale sul medio-lungo periodo, sebbene siano campi di analisi da mantenere costantemente monitorati, significa rischiare di tenere sotto traccia una chiave di lettura che in questa analisi verrà dipanata, e quindi rendersi vulnerabili a tutti quegli strumenti che sono già ora agiti dalla Cina, sebbene abilmente mascherati dal fiume di narrativa retorica con il quale la Cina tenta di depistare, sviare e annebbiare i propri interlocutori, soprattutto internazionali.

Proprio in considerazione della natura autocratica del regime cinese, per ampliare lo spettro di analisi, è necessario in primo luogo considerare il fulcro centrale da cui ogni azione prende le mosse, ovvero l’interesse non della Cina come nazione ma della Cina intesa come suo Partito unico, il Partito Comunista Cinese (ndr in seguito ‘Partito’), e del suo esponente di più alto grado, l’attuale Presidente della Repubblica popolare cinese nonché Segretario generale del Partito comunista cinese Xi Jinping, il quale agisce ed incrementa il potere politico proprio e del Partito, anche attraverso il braccio armato del Partito stesso, ovvero l’Esercito di Liberazione Popolare (People Liberation Army, in breve PLA).

L’intrinseco collegamento tra Partito e braccio armato del PLA è rilevante, così come lo è la connotazione specifica di quest’ultimo. A differenza infatti di un esercito nazionale, che si pone a difesa di uno Stato e del suo popolo, lo scopo dell’esercito cinese non è quello di difendere il proprio popolo, ma quello di creare potere politico per il Partito. Questa interazione è da decenni peraltro esplicitamente evidenziata dai documenti ufficiali cinesi, nei quali sin dal 2003 nella rivisitazione delle Linee guida del lavoro politico dell’Esercito cinese, si sottolinea che il  People Liberation Army (PLA) debba coadiuvare il Partito nell’esercizio fattivo delle cosiddette ‘Three Warfares’, ovvero tre dimensioni di conflitto in tempo di pace attraverso le quali consentire al Partito stabilità e protezione: la guerra dei media e dell’opinione pubblica, la guerra psicologica, e la guerra giuridico – legale.

Potere politico e dottrina militare cinese sono quindi profondamente connessi: il potere politico del Partito unico cinese permea e fonda la dottrina militare cinese.

Se è quindi senza dubbio cruciale osservare e studiare il PLA con una visione prettamente militare, come fosse un esercito, valutando le sue capacità di combattimento e le conseguenti implicazioni sulla sicurezza, così come è altrettanto cruciale individuare i variegati strumenti di soft power utilizzati dalla Cina, il tutto va inserito, per valutarne appieno la portata e quindi la reale minaccia, in una analisi che accanto alla visione militare prenda in esame e valuti la political warfare, la guerra politica, ed i suoi meccanismi, così come agita dal partito cinese, all’interno del quale il PLA è collocato ed  agisce.

Rilevante è quindi considerare che nella riorganizzazione e nello sviluppo del PLA risalente al 2012, sono state poste le basi ed il fondamento teorico del system of systems operational capability (tixi zuozhan nengli) cinese, composto da ‘operational unit’ (zuozhan danyuan) e da operational elements’ (zuozhan yaosu), da cui emerge in modo inequivocabile la finalità del PLA di creare potere politico mediante le proprie strutture e le proprie azioni.

Secondo questa riorganizzazione, gli elementi operativi sono considerate capacità chiave, fuse all’interno del sistema informativo integrato per generare una maggiore efficacia di combattimento. Rappresenterebbero le capacità che il PLA sta sviluppando e che secondo le informazioni sarebbero supportate da sforzi di modernizzazione. Gli ‘elementi operativi’ ricomprendono appunto le ‘Three warfares’, il cui impiego integrato sarebbe progettato per 1) cogliere vantaggi politici, 2) fomentare la disintegrazione psicologica del nemico, 3) influenzare altri paesi e sostenere il proprio morale. Queste azioni, nel system of systems operational capability (tixi zuozhan nengli) cinese, dovrebbero iniziare prima di altre azioni di combattimento e continuare attraverso tutte le fasi operative. L’obiettivo ideale sarebbe il raggiungere i propri obiettivi senza combattere o sottomettere il nemico con una distruzione minima.

Seppure non venga specificato che le azioni inerenti le Three Warfares vengano agite anche in tempo di pace, è altresì da considerare che, posto che la forza militare cinese è funzionale agli interessi del Partito e del suo Leader, e che tali interessi sono anche economici e geo-politici è verosimile che le tutte le tre dimensioni di warfares siano agite dal PLA quotidianamente, quindi anche in quello che comunemente viene denominato ‘tempo di pace’.

Considerandole ora più da vicino, la prima dimensione di warfare, ovvero Public Opinion warfare, ha l’obiettivo di plasmare l’opinione pubblica sia a livello nazionale che internazionale. Non deve stupire che questo filone di conflitto sia agito anche all’interno della stessa nazione cinese, posto che il PLA, longa manus militare del Partito, ritiene che mobilitare anche attraverso i mass media l’opinione pubblica cinese sia utile per scoraggiare le incursioni straniere sugli interessi cinesi. La guerra dell’opinione pubblica utilizza infatti i mass media sia per promuovere le proprie posizioni politiche sia per bloccare l’offensiva mediatica del ‘nemico’ al fine di influenzare l’opinione pubblica interna ed esterna.

La seconda dimensione di warfare, Psychological  warfare, tenta di influenzare i decisori stranieri e il modo in cui si avvicinano alla politica cinese, utilizza i principi della psicologia moderna per selezionare strategie contro un audience  specifico, consolidare la propria linea di difesa psicologica e influenzare i militari e i civili ‘nemici’ per raggiungere obiettivi militari e politici

Infine, la terza  e ultima dimensione di warfare, Legal warfare, cerca di modellare il contesto legale in modo che sia favorevole alle azioni cinesi, costruendo le giustificazioni legali necessarie per le azioni di Pechino, sia in ambito nazionale che internazionale.

Tutto ciò è appunto parte integrante e rientra nello spettro di quella guerra politica (political warfare) che non solo fa parte del lessico del PLA già da decenni, ma che è stata rinforzata nel corso degli anni, ed è quindi ampiamente consolidata.

Questo  sistema integrato di azione agite dal PLA, che in quanto braccio armato del Partito Comunista Cinese, è sempre operativo allo scopo di realizzare gli interessi politici del Partito, rende evidente che la strategia predatoria cinese si pone all’interno di una coordinata azione di prevaricazione, che a sua volta si colloca perfettamente all’interno delle strategie e dei meccanismi manipolatori, su cui ci si soffermerà nel dettaglio in prossimi contributi.

Occuparsi quindi soltanto di Hybrid Warfare cinese rischia di spostare e sviare il focus e far perdere il centro del bersaglio. Tanto quanto è importante occuparsi degli sforzi di Pechino per plasmare le percezioni dei Paesi stranieri, analizzando gli strumenti messi in campo anche dal PLA, è altrettanto cruciale occuparsi della fonte da cui promanano le direttive per queste attività coordinate, ovvero il Partito Comunista Cinese e in particolare il suo attuale Presidente Xi, la  sua natura, la sua attuale connotazione, visione ideologica ed organizzazione, e la sua strategia per rimanere al potere e costruirsi non solo una legittimazione interna ma una legittimazione internazionale che gli consenta di espandere la sua personale egemonia autocratica.

L’analisi dell’autocrazia del Presidente cinese Xi e della sua visione ideologica, sarà oggetto del prossimo contributo.

Autore: Michela Ravarini  ©Copyright reserved             

Italy, 12.04.2020

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